top of page

Antonello Tolve

Innesti, ad arte

 

Ciò che a primo acchito riferisce e racconta l’opera di Ulrich Egger, è la capacità di trasformare radicalmente il luogo comune in un dispositivo narrativo la cui natura polisemica si avvale di condensazioni e spostamenti, di assemblaggi e innesti che débris du futur creano una nuova sintassi. Egger scava infatti nel tessuto della lingua quotidiana per far emergere, da questa, una lingua straniera nella lingua mediante la quale ferire al cuore l’occhio dello spettatore e generare nuovi cammini mentali, scintille glossolaliche dove la solida trasparenza dell’immagine si somma a sofisticate e robuste immissioni di oggetti reali quali porte e finestre (straordinarie le installazioni del Dämmerung, 2013), lastre vitree, balaustre, tavelle e putrelle in ferro, lacerti lignei per carpenteria (si pensi almeno a Dove abiti?, 2024), cemento, gesso, mattonelle smaltate, morsetti per falegnameria, neon, cavalletti, weathering steel e alluminio, camici da lavoro o cuscini, come nel caso di un potente e ineguagliabile No Way Out del 2009.

Seguendo direttrici narrative dai tratti neoromantici e metafisici (visibili soprattutto in molti Ohne Titel del 2001-2002), l’artista spinge la forma o la pelle della realtà oltre il proprio limite conosciuto mediante moltiplicazioni o addizioni che richiamano alla memoria la tecnica dell’остранение messa poeticamente in campo da Viktor Šklovskij nel 1917 e intersecata con altre affini strategie, come la Verfremdung di Brecht, l’Unheimlich di Freud, la différance di Derrida. Muovendosi con disinvoltura tra atmosfere urbane e visioni fatiscenti d’interno (sabotate appunto dalla lucidità dello spiazzamento che invita a riflettere sugli statuti primari dell’artificio linguistico), Egger crea illusioni mediante le quali portare lo sguardo verso la distruzione dell’illusione stessa e trasformare dunque la finzione in una funzione necessaria a innescare processi riflessivi in cui innen und außen si mescolano tra loro per generare trapianti temporospaziali, controimmagini, slittamenti continui nel tessuto del reale e in quello che reale non è.

Tra i vari elementi che si accolgono a vicenda e che trovano via via una loro corrispondenza visiva e plastica, una loro incarnazione tattile e tangibile (vicina per affinità a Beuys a Kiefer e ancora prima a un indimenticabile Kounellis o anche a La Pietra e a Marano), nell’ampio e spettacolare lavoro di Egger – come non pensare alla stupefacente Grassmachine del 2004 – affiora un progresso intimo del pensiero che si diverte a trasformare l’ordinario in qualcosa di diverso e di etimologicamente paradossale (παρά-δοξος): e dunque a soverchiare e demolire definitivamente la δόξα per portare l’oggetto a un astruso stato d’eccezione.

Accanto a un procedimento fotoscultoreo che vede l’artista da sempre impegnato in un corpo a corpo con la materia per creare piacevoli disorientamenti oftalmici e audaci ambiguità, Egger mostra la piena volontà (e consapevolezza) di utilizzare senza alcuna discriminazione e anzi in maniera del tutto democratica qualsiasi materia per concepire ingranaggi da caricare simbolicamente di problemi e questioni sulle idee del bello in età contemporanea.

Riabitati e riabilitati, a volte riadattati o anche rigenerati, i suoi corpi scultorei sono tutti spericolati collage, sensibili combinazioni in cui l’occhio innocente del pubblico ha modo di ascoltare una nuova storia, fatta di verdi spenti e cieli senza gioia, di sogni vissuti in sogno, di echeggiamenti e stridori, di graffi e schegge, di strappi pindarici, di archivi indispensabili e assoluti, di posizioni sbilenche, di ferite attente, di pareti screpolate dal sole, di points of view, di ritagli netti e indolore, di bellezze davvero insperate, di luoghi meravigliosamente disadorni che sembrano dire, con Andrea Zanzotto, anche nella discarica (là, dove rimane tutto lo spazio d’un’infinita campagna gelata senza nome) può nascere un fiore.

La fuga degli dei

Pietro Gaglianò

 

Il rapporto di Ulrich Egger con l’architettura, e con la sua interpretazione attraverso gli strumenti e i linguaggi dell’arte, si muove con un ritmo che segna due tempi. Il primo accento si poggia su un’attenzione appassionata, un’attrazione, per le geometrie dell’architettura e per il modo in cui i processi industriali di produzione e costruzione della modernità hanno trasformato la vita del genere umano. Il secondo battito, sommesso, quasi un’eco del primo, risuona come una preoccupazione per gli effetti di questo impatto: ampliando virtualmente le possibilità degli esseri umani, la rivoluzione industriale, per un paradosso solo apparente, continua a ripercuotersi sulla loro capacità di scelta, sempre più condizionata dagli imperativi del progresso e del profitto. Il paesaggio contemporaneo, in questa prospettiva, rivela tutte le conseguenze di un’antropizzazione pervasiva e violenta che ha e modificato, in modo irreversibile e devastante, le condizioni del pianeta. Ed è qui che lo coglie, lo raccoglie e lo reinventa lo sguardo di Egger.

Al cospetto delle rovine di spazi industriali, di altre architetture in abbandono o dell’urbanizzazione massiva, l’artista interpreta, in una declinazione contemporanea, quello sgomento che dal XVIII secolo è stato teorizzato per descrivere il sentimento provato dai viaggiatori europei davanti alla potenza distruttrice della natura o alle tracce monumentali della Storia. La stessa fascinazione conflittuale tra stupore, terrore e ragione si riverbera negli osservatori delle sue opere. Le pareti rocciose su cui si aprono finestre domestiche, le geometrie lineari da cui si sviluppano elementi tridimensionali, la continuità tra immagine fotografica e innesti materici obbligano un secondo sguardo, un movimento tra prossimità e distanza: ancora una volta un ritmo in due tempi che alimenta l’oscillazione tra il riconoscimento del consueto e altre sfere del sensibile, sottratte all’inquadramento razionale. Unheimlich, termine che deve la sua popolarità alla diffusione delle teorie freudiane e sulle cui sfumature si ramifica una inesausta letteratura, si pone qui come la frontiera tra ciò che è, o viene ritenuto, familiare e l’incontro con visioni impreviste, capaci di incrinare l’illusorio controllo che l’umanità opera sul mondo.

Lo stesso ritmo si avverte nel modo in cui Egger si confronta con le possibili declinazioni dell’abitare, sintetizzate nel concetto e nella conformazione di una struttura quasi archetipica. Con le sue maquette dal tetto a due spioventi, l’artista produce una serie di esercizi di equilibrio in cui i confini della casa, la sua stabilità, la sua definizione attraverso la forma e il materiale entrano in uno stato di continua ridefinizione: una geometria non euclidea, fatta di ossimori e interrogativi.

Così, in questo andamento binario, si compone la maggior parte delle opere di Egger, pervase da un sentimento di solitudine metafisica. I suoi lavori ricordano, più che le città di Giorgio De Chirico, vuote da sempre e immerse in un silenzio enigmatico e trascendente, una tela di Jacopo Tintoretto come se fosse appena stata abbandonata. Rimangono i tessuti scomposti, i resti del banchetto, la luce polverosa: gli esseri umani e gli animali sono scomparsi e così gli dei, nemmeno loro rimangono ad abitare. In questa traduzione si chiarisce come il senso di allarme che ci sfiora nella ricerca di Ulrich Egger riguardi più una memoria collettiva che un trauma individuale; è connesso, forse, più che alla moderna teoria psicoanalitica al timor panico, a quella paura ancestrale suscitata dal dio dei boschi nell’ora meridiana. E si prova non per via dell’improvvisa parusia divina ma per la constatazione che, come ricorda un enigmatico passo di Plutarco, quel dio che abitava la natura non si manifesterà più. Di fronte a questa inappellabile solitudine rimane l’invenzione dell’arte, che rivela, destabilizza e infine consola.

Paolo Baldacci (MI)

Ulrich Egger è un artista di grande originalità per l’abitudine di servirsi nello stesso tempo e in un’unica opera degli effetti di arti apparentemente diverse: scultura, architettura, pittura, fotografia. In questo senso egli è un campione dell’interdisciplinarità espressiva che negli ultimi decenni ha abbattuto per sempre i confini delle pratiche artistiche.

Le sue fotografie incastrano tra pareti di roccia edifici prelevati da siti urbani che non sappiamo più riconoscere; nebbie sulfuree o ghiacciai evocatori di un romantico delightful horror fanno da sfondo a tubature d’acciaio e a ganci di gigantesche carrucole in un gioco alternato di spostamento e di spaesamento che è tanto più emozionante quanto più sembra plausibile e reale. Spesso, di fronte all’immagine prelevata dal vero, modificata o meno che sia, viene posto un diaframma di vetro o di perspex fermato dalla struttura lignea e scrostata di una finestra che crea il miracolo della doppia visione in profondità, dell’inganno, in cui il pezzo di realtà materiale strappato da un edificio fatiscente ingloba nel suo verismo l’illusione della fotografia in una commovente messinscena esistenziale di frammenti di vita: Palermo, Napoli, Milano.

Egger non ha mezze misure, grida e non esita a squarciare le sue enormi pareti fotografiche, come per l’urgenza di dichiarare il dramma nascosto negli ambienti rappresentati: ne emergono pezzi di muri e di cemento, stracci, vestiti. Ma se vuole può dar prova di una poesia metafisica più sottile e cerebrale: non c’è via d’uscita dalla piccola casa di piastrelle bianche adagiata su due cuscini che galleggiano sul mare di cemento dell’impiantito, tra Giotto e Paolini.  

 

 "Inside/Outside" Camilla Martinelli (TN)

       

Il progetto espositivo, a cura di Camilla Martinelli, ripercorre il percorso fotografico più recente dell'artista di origini venostrane e presenta anche una selezione di lavori inediti eseguiti a mano tramite la tecnica del collage fotografico. "Inside/Outside" approda a questa nuova sperimentazione artistica mostrando i lavori più recenti che ne hanno posto le premesse: visioni
d'interni disabitati dove l'incidenza della luce dalle finestre dà vita a forti contrasti verdastri che avvolgono la scena in un'astrazione fredda e inquieta, immagini elaborate in senso digitale che giocano ad accostare in modo improbabile paeasaggi urbani e naturali in realtà molto lontani tra loro. L'apparecchio fotografico consente all'artista di registrare delle visioni nel corso dei suoi viaggi, che utilizza poi in studio come fonti primarie e alfabeto visivo per realizzare immagini ex novo. La scelta dei soggetti non muove dall'interesse di cogliere e ricordare degli avvenimenti vissuti, ma di registrare delle sensazioni suscitate solitamente da una certa matericità visiva delle superfici, pattern colti indifferentemente in contesti naturali piuttosto che artificiali, come se il mondo fornisse allo sguardo dei veri e propri spunti compositivi materici.
Secondo Susanne Langer le emozioni della vita soggettiva risultano esprimibili proprio grazie alla forma artistica, l’arte costituisce la manifestazione più alta tra le forme puramente emozionali e si relaziona al mondo in qualità di simbolo presentazionale, ovvero non rappresenta, non si riferisce, non rimanda a qualcosa del mondo, ma "presenta" nuovi aspetti dello stesso. La sostanza artistica non è una forma riproduttiva dell'esperienza, bensì rielaborativa.
La tensione immaginifica di Ulrich Egger ricongiunge l'esperienza vitale e la capacità di cogliere relazioni e forme, a una dialettica tra soggettività e oggettività che si compie significativamente attraverso la fotografia. Supponendo a priori l'esistenza di un referente reale, il medium fotografico è uno strumento mimetico per eccellenza che viene in questo caso impiegato in senso innovativo per "presentare" mondi rielaborativi dell'esperienza in cui il referente, ovvero gli oggetti e le situazioni, viene composto e liberamente accostato.
L'accostamento di atmosfere e ambientazioni tramite elaborazione digitale o intervento analogico (collage) non va delineando immagini di memoria cubista ma riprende piuttosto l'attitudine dadaista all'accostamento improbabile. Le potenzialità tecnologiche della fotografia consentono all'artista di esprimersi con grande libertà, pur rimanendo entro il campo della verosimiglianza data dalle caratteristiche del medium stesso. La potenza visiva delle immagini di Egger è data dall'attenta scelta dei soggetti, che rifugge ogni forma di narrazione e documentarismo per privilegiare la forza espressiva degli interni così come la monumentalità audace degli esterni.
Dentro e fuori si fanno concetti labili e relativi, è un dualismo che si compenetra e trova una propria situazione visiva sincronica. Il processo di compenetrazione e dialogo attivo tra interno ed esterno supera ogni barriera fisica e mentale dando vita a visioni del tutto inedite frutto della sensibilità compositiva dell'artista, in grado di bilanciare l'accostamento di volumi come un architetto, di orchestrare le variazioni cromatiche come un pittore e plasmare la materia artistica come il più contemporaneo tra gli scultori. Egger nasce in senso artistico proprio come scultore e ancora oggi si esprime anche tramite la scultura e l'installazione. Da molti anni ha trovato nella fotografia un medium ad essa complementare, che gli permette di costruire la materia in maniera controllata e di godere dell'immensa libertà espressiva che consentono le nuove tecnologie di elaborazione digitale.

 

"In alcun luogo" Camilla Martinelli (TN)  

Die Fotografien von Ulrich Egger verführen den Blick, sie laden dazu ein aktiv die künstlerische Manifestation zu erkunden, sie befragen den in ihr implizierten medialen Prozess.

 

Bekannt ist Ulrich Egger vor allem für sein skulpturales Schaffen, doch hat er sich in den letzten Jahren zusätzlich intensiv der Fotografie gewidmet. Mit der Kamera hat er experimentiert und dadurch eine eigene Sprache entwickelt bzw. erarbeitet.

Die Fotos, des ursprünglich aus dem Vinschgau stammenden Künstlers, zeigen nicht, das auf den ersten Blick erscheinende, sie spielen subtil mit den Begriffen des Künstlichen und des Authentischen.  Dies bedeutet, dass die Elemente, die in den Bildern gemeinsam auftauchen, vom Künstlern nicht immer gleichzeitig aufgenommen, sondern als freie und sensible Komposition, zusammengerückt wurden.  Die digitale Bearbeitung ermögliche es Egger eine vom dokumentarischen Imperativ entfesselte Ästhetik auszudrücken.

Der Fotojournalismus stellt einen gewichtigen Teil der Geschichte der Fotografie dar, aber die Praktiken der Fotomontage, der Collage und des Überlappens haben auf der anderen Seite die Kreativität großer Kunstfotographen, wie Man Ray, Aleksandr Michajlovič Rodčenko, László Moholy-Nagy – oder unter den Zeitgenossen vor allem David Hockney – inspiriert. Die Fotografien von Egger bestreiten nicht einen Prozess der Fragmentierung des Bildes, sie öffnet sich vielmehr für Kontamination, die von einem bewussten visuellen Effekt ausgehen.

Ulrich Egger beansprucht einen wunderbaren Formalismus, der anhand des Zusammenführens von, an verschiedenen Orten und in unterschiedlichen Situationen, aufgenommener Bilder, unbekannte Szenen erschafft, die aber gleichzeitig nichts Surreales an sich haben. Dies ist die Besonderheit der Werke Eggers: Sie eröffnen sublim eine Künstlichkeit ohne Offenbarend zu sein.

Die Kraft des Bildes beansprucht eine formaler Festlichkeit, die sich zu den Grenzen zwischen Realität und Fiktion, zu den Bedingungen und Möglichkeiten der fotographischen Mittel  befragt, aber a priori keine gebundene und konstruierte Reflexion vorgibt. Der Betrachter ist frei sich in die Szene mit seiner eigenen Empfindung einzulassen und erst im zweiten Moment kann er sich fragen: Was sehe ich gerade wirklich? Was ist das für ein Ort?

In „Das Sichtbare und das Unsichtbare“ (1945) hält Merleau Ponty fest, dass es nichts Schwierigeres gibt, als zu wissen was wir sehen. Was wir in den Bildern von Egger erblicken, wissen wir nicht bestimmt, seine Szenen bleiben heimatlose Rätsel. Die Stärke und der Charakter eines architektonischen Elements, eines Geräts oder Gefährts für Bauarbeiten, werden mit der Kraft und dem Charakter des Berges, der Landschaft, vereint. Somit wird unterstrichen, dass es aus dem kompositorischen Gesichtspunkt betrachtet, sinnlos ist zwischen künstlichen und natürlichen Elementen zu unterscheiden. Die Fotografie pocht auf eine Konfrontation zwischen Architektur und Umwelt auf ihre härteste und ahnungsloseste Weise. Angefressene, abgenutzte, von der Zeit gezeichnete, den atmosphärischen Bedingungen ausgesetzte Oberflächen zeigen sich fast malerische, materische, manchmal chromatisch differenzierend, ähnlich den isolierten grünen Zellen im Chaos der Dächer Istanbuls, oder den entfremdeten Fassadeneinfassungen der neapolitanischen Häuser. Und dann trifft man wieder unvermutet in eine Landschaft eingeschriebene Architektur, die sich perfekt in die Atmosphäre integriert. Die architektonische Brutalität ist im Grunde gar nicht so weit entfernt von der Brutalität des Hochgebirges, von der Zertrümmerung und dem Verfall von ehemals aktiven und heute aufgegebenen Örtlichkeiten. Die Dichtheit von verschiedenen kompositorischen Elementen ist bei Egger als ein Dialog oder Kontrast, als Dekontextualisierung und Neukontextualisierung angelegt. Das große Abwesende in Eggers Orten ist das menschliche Element, welches durch das Nichtvorhandensein in den starren Bildern mit den kalten Farben die Trostlosigkeit unterstreicht.

Vom ästhetischen Gesichtspunkt aus betrachtet handelt es sich um Variationen der Tonalität, Oberfläche und der Ebenen, um formale Verweise also, die zwischen Anschein und Bedeutung transzendieren. So wird die ganze Welt, jeder Ort, zum formalen Repertoire und zum Ort der künstlerischen Kreativität, welche jede Schranke zwischen Raum und Zeit zu überwinden sucht. Der aktive Dialog zwischen urbanen und natürlichen – überall auf der Welt wahrgenommener – Landschaften fixiert sich in einer archaischen und gleichzeitig immer wieder neu erfindenden Realität: Jener der Kunst.

Der Geist der Dinge, der Geist der Personen: Thomas Amonn (BZ)  Zum Werk Ulrich Eggers


In seinem grundlegenden Totem und Tabu verfolgt Sigmund Freud die Spuren animistschen Denkens, die auch im Menschen der von einer wissenschaftlichen Weltsicht geprägten Gegenwart fortleben. „Was wir so (....) in die äußere Realität projizieren, kann kaum etwas anderes sein als die Erkenntnis eines Zustandes, in dem ein Ding den Sinnen und dem Bewußtsein gegeben, präsent ist, neben welchem ein anderer besteht, in dem dasselbe latent ist, aber wiedererscheinen kann, also die Koexistenz von Wahrnehmen und Erinnern“.
Die Domäne, in welcher psychologische Prozesse der Dingbeseelung weiter bestehen, ist in der heutigen Kultur die Kunst. In Ulrich Eggers Arbeiten sprechen die Dinge zu uns. Sie sprechen zu uns als die Dinge, aus denen die Werke bestehen – zum Beispiel Fensterrahmen, mit den sichtbaren Spuren des unzähligen Auf- und Zumachens der Bewohner einer aufgelösten Wohnung, und den unsichtbaren Spuren der Blicke und Gedanken, welche von innen nach außen, und von außen nach innen führten.
Die Werke sprechen aber auch als neue Dinge zu uns, die aus alten erstanden sind: ein verdichtetes Haus der Erinnerung, in dem die Geschichten des nicht mehr bestehenden Hauses fortleben.
Ulrich Eggers Werke sind nicht Werke der Imagination: die von ihm eingesetzten Zeichenträger bringen ihre Bedeutung schon immer mit, eingegraben in ihre Materialität. Dies gilt auch für die photographischen Arbeiten: Diese begegnen dem Betrachter nicht als ein verselbständigtes visuelles Erlebnis, sondern sie sind fest im Ort ihrer Entstehung verankert. Nicht dargestellte Dinge und Orte sehen wir, sondern Dinge und Orte. Und auch diese Werke stehen uns mit einer materiellen Eigenpräsenz gegenüber, als verdichtete Spuren mit einem neuen, eigendinglichen Leben.
Die Dinge und Räume sind da, auch wenn die Menschen, die mit ihnen und in ihnen umgingen, nicht mehr da sind. Erinnerung an Innenräume und Alltagsgegenstände ist immer auch Erinnerung an Menschen.
„Man könnte sagen, der «Geist» einer Person oder eines Dinges reduziere sich in letzter Analyse auf deren Fähigkeit, erinnert und vorgestellt zu werden, wenn sie der Wahrnehmung entzogen sind“ (Totem und Tabu, Kap V).

 

L`anno che verrà:  ​Valerio Dehò (BO)

Il lavoro di Ulrich Egger sul significato dell`abitare nel mondo contemporaneo e in questo momento storico in particolare, sta diventando una sorta di profezia. Partito con una forte idea del disegno e dell`architettura come spazio umano, ha elaborato progressivamente un discorso sul mondo attuale, sulle sue contraddizioni, sulle sue paure, sui suoi falsi miti. L`inserimento strutturale della fotografia nelle sue opere che non rimanda ad una vuota architettura ma a degli spazi realmente abitati da gente comune, diventa una visione  esplicita e cruda di quello che ci accade: l`aumento della povertà, la fine del modernismo, il divario economico tra i ricchi e i poveri. Le sue “finestre” diventano contenitori che lasciano intravedere quello che c’è dietro, come quando fotografava gli interni delle zone industriali mostrandone l`anima di ferri contorti e di cavi infiniti. Oggi Egger ha trovato una via poetica alla solitudine contemporanea, ha saputo dare una giustificazione piena e totale alla sua ricerca in cui il già vissuto si intreccia con il tempo da vivere. Per questo il titolo della mostra “L`vanno che verrà” oltre ad essere una citazione dello scomparso Lucio Dalla, è anche un bollettino di quanto andrà ad accadere a breve, domani, appunto.

Ulrich Egger porta avanti dagli anni Ottanta una ricerca molto particolare e assolutamente personale. Il suo essere “scultore” lo ha condotto a sperimentare tutte le forme della terza dimensione, a mettere insieme anche linguaggio non facile da connettere con i materiali “duri” come il ferro, il vetro, il cemento. Ma  è riuscito a non ripetersi mai, ampliando il suo approfondimento sul senso del`housing, su come questo rifletta la nostra condizione, la nostra coscienza sociale.

Questi ultimi lavori entrano ancora di più nell’intimità delle persone, diventano dei close up sul mondo che ci circonda e che diventa sempre più spietato, arido. L`architettura non nasconde più, ma rivela. Sottolinea il mondo e le sue contraddizioni. Le opere di Egger sono dei concentrati di emozioni e di memorie personali e collettive. Come sempre l`arte catalizza i contenuti, li sintetizza e li rende comunicabili. Per questo le sue mostre, come questa di Palazzo San Zanobio, diventano a tutti gli effetti delle “esperienze”, cioè qualcosa che prima non sapevamo esistesse e che d’ora in poi ci accompagnerà sempre come immagine e come nuovo sguardo sulla realtà.

 

VITTORIA COEN – LA MEMORIA DEL VISSUTO E’ UN COMPLESSO SISTEMA DI RELAZIONI. 

PAROLA, SEGNO, IMMAGINE, E DUNQUE SIMBOLI, OGGETTI DEL QUOTIDIANO, LUOGHI , EVENTI CHE HANNO SCANDITO LA STORIA DELL’UOMO. LA MICROSTORIA DI OGNUNO DI NOI SI RACCHIUDE IN IMMAGINI CHE SI SOVRAPPONGONO NEGLI SPAZI CHE LASCIANO TRACCE.

DOPO AVER LASCIATO I LUOGHI E’ COME SE CE NE RIAPPROPRIASSIMO, PERCHE’ ANCHE DOPO DI NOI ESSI CONTINUANO A VIVERE, MUTANDO ASPETTO. E CI PERVADE UNA NUOVA CURIOSITA’, QUELLA DI RISCOPRIRLI.

 

 

In nome del padre: Nicola Galvan (PD)

L’artista altoatesino incentra il suo intervento su di un simbolo universalmente conosciuto come la croce. Sciolta dal suo significato religioso, questa caratterizza tematicamente il lavoro in qualità di archetipo della dimensione culturale e della riflessione intima. Richiamando la pianta delle grandi cattedrali del passato, la croce di Egger diventa principio ordinatore dello spazio fisico, che da essa viene scandito; al tempo, inducendo l’osservatore ad una fruizione di tipo interattivo, si propone quale possibile confidente di desideri ancora inespressi, che l’installazione può accogliere e trattenere attraverso il deposito della parola scritta.

Il recupero, per il suo compimento, di recenti rovine edilizie, è motivato non solo dalla loro connaturata “energia” espressiva, ma anche dal loro valore evocativo. Residuo delle sempre più rapide trasformazioni che investono l’ambito urbanistico, questi elementi divengono per l’artista un’immagine metaforica dello smarrimento spirituale e ideologico che sembra connotare il nostro tempo.

Prendendo in esame, di volta in volta, uno specifico contesto territoriale, Egger regala alle componenti frammentarie delle sue opere un’inattesa profondità immaginativa. La sua ricerca espressiva, che mescola pittura, scultura, fotografia, architettura, ha suscitato negli ultimi anni un crescente interesse in Italia e all’estero.

der engel der geschichte

Es gibt ein Bild von Klee, das Angelus Novus heißt. Ein Engel ist darauf dargestellt, der aussieht, als wäre er  im Begriff, sich von etwas zu entfernen, worauf er starrt. Seine Augen sind aufgerissen, sein Mund steht offen und seine Flügel sind ausgespannt. Der Engel der Geschichte muß so aussehen. Er hat das Antlitz der Vergangenheit zugewendet. Wo eine Kette von Begebenheiten vor uns erscheint, da sieht er eine einzige Katastrophe, die unablässig Trümmer auf Trümmer häuft und sie ihm vor die Füße schleudert. Er möchte wohl verweilen, die Toten wecken und das Zerschlagene zusammenfügen. Aber ein Sturm weht vom Paradiese her, der sich in seinen Flügeln verfangen hat und so stark ist, dass der Engel sie nicht mehr schließen kann. Dieser Sturm treibt ihn unaufhaltsam in die Zukunft, der er den Rücken kehrt, während der Trümmerhaufen vor ihm zum Himmel wächst. Das, was wir den Fortschritt nennen, ist dieser Sturm.

(Walter Benjamin. Gesammelte Schriften. Band I/2. S. 697f)  

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.

W. Benjamin, Angelus novus, Tesi di filosofia della storia, Einaudi, 1962, pp. 76-77

Orte und Nicht-Orte »Die Unterscheidung zwischen Orten und Nicht-Orten beruht auf dem Gegensatz von Ort und Raum.«

So wie ein Ort durch Identität, Relation und Geschichte gekennzeichnet ist, so definiert ein Raum, der keine Identität besitzt und sich weder als relational noch als historisch bezeichnen läßt, einen Nicht-Ort. Unsere Hypothese lautet nun, daß die ‘Übermoderne’ Nicht-Orte hervorbringt, also Räume, die selbst keine anthropologischen Orte sind und, anders als die Baudelairesche Moderne, die alten Orte nicht integrieren; registriert, klassifiziert und zu ‘Orten der Erinnerung’ erhoben, nehmen die alten Orte darin einen speziellen, festumschriebenen Platz ein. Eine Welt, die Geburt und Tod ins Krankenhaus verbannt, eine Welt, in der die Anzahl der Transitraume und provisorischen Beschäftigungen unter luxuriösen oder widerwärtigen Bedingungen unablässig wächst (die Hotelketten und Durchgangswohnheime, die Feriendörfer, die Flüchtlingslager, die Slums, die zum Abbruch oder zum Verfall bestimmt sind), eine Welt, in der sich ein enges Netz von Verkehrsmitteln entwickelt, die gleichfalls bewegliche Behausungen sind, wo der mit weiten Strecken, automatischen Verteilern und Kreditkarten Vertraute an die Gesten des stummen Verkehrs anknüpft, eine Welt, die solcherart der einsamen Individualität, der Durchreise, dem Provisorischen und Ephemeren überantwortet ist, bietet dem Anthropologen ein neues Objekt, dessen bislang unbekannte Dimensionen zu ermessen waren, bevor man sich fragt, mit welchem Blick es sich erfassen und beurteilen läßt. Dabei gilt für den Nicht-Ort geradeso wie für den Ort, dass er niemals in reiner Gestalt existiert; vielmehr setzen sich darin Orte neu zusammen, Relationen werden rekonstruiert, und die ‘jahrtausendealten Listen’ der ‘Erfindung des Alltäglichen’ und der ‘Künste des Machens’, die Michel de Certeau subtil analysiert hat, können sich darin einen Weg bahnen und ihre Strategien entfalten. Ort und Nicht-Ort sind fliehende Pole; der Ort verschwindet niemals vollständig, und der Nicht-Ort stellt sich niemals vollständig her – es sind Palimpseste, auf denen das verworrene Spiel von Identität und Relation ständig aufs neue seine Spiegelung findet. Dennoch sind die Nicht-Orte das Maß unserer Zeit, ein Maß, das sich quantifizieren läßt und das man nehmen könnte, indem man – mit gewissen Umrechnungen zwischen Fläche, Volumen und Abstand – die Summe bildete aus den Flugstrecken, den Bahnlinien und den Autobahnen, den mobilen Behausungen, die man als ‘Verkehrsmittel’ bezeichnet (Flugzeuge, Eisenbahnen, Automobile), den Flughafen, Bahnhöfen und Raumstationen, den großen Hotelketten, den Freizeitparks, den Einkaufszentren und schließlich dem komplizierten Gewirr der verkabelten oder drahtlosen Netze, die den extraterrestrischen Raum für eine seltsame Art der Kommunikation einsetzen, welche das Individuum vielfach nur mit einem anderen Bild seiner selbst in Kontakt bringt.

Die Unterscheidung zwischen Orten und Nicht-Orten beruht auf dem Gegensatz von Ort und Raum. Nun hat aber Michel de Certeau für die Begriffe des Ortes und des Raumes eine Analyse vorgelegt, die wir hier nicht ignorieren können. Für ihn bilden ‘Orte’ und ‘Räume’ keinen Gegensatz wie ‘Orte’ und ‘Nicht-Orte’. Der Raum ist in seinen Augen »ein Ort, mit dem man etwas macht«, ein »Geflecht von beweglichen Elementen«, erst die Fußgänger verwandeln die von der Stadtplanung geometrisch als Ort definierte Straße in einen Raum.

Quelle: http://www.kulturregion-stuttgart.de/offeneraeume/texte/auge.htm 

aus: Orte und Nicht-Orte. Vorüberlegungen zu einer Ethnologie der Einsamkeit. Frankfurt, 1994

Luoghi e non Luoghi

 Nell`esperienza contemporanea, luoghi e non luoghi «si incastrano, si compenetrano reciprocamente, la possibilità del non – luogo non è mai assente da un qualsiasi luogo» così Giaccardi e Magatti riprendono un`affermazione di Marc Augé sulla compresenza nello spazio sociale di luoghi della solitudine, della non permanenza, dell‘interazione strumentale e contrattuale.

Ma cosa sono effettivamente i luoghi e i non luoghi?

I primi riguardano uno spazio relazionale identitario storico, cioè uno spazio in cui le relazioni sono sollecitate e sono parte integrante di questo luogo, i soggetti si riconoscono al suo interno e per questo è definito identitario e storico perché i soggetti hanno una storia comune o si richiamano ad essa.

Il non luogo ha caratteristiche opposte, riguarda gli spazi di transito, di attraversamento, che sono pensati a prescindere dalla relazione, infatti, non sono identitari cioè non sono spazi in cui ci si riconosce come appartenenti (classici non luoghi sono aeroporto, la stazione).

Nella contemporaneità proliferano questi spazi che sono pensati attorno a dei fini, essi sono come degli incroci di mobilità, dove il rapporto principale si svolge tra il luogo e l‘individuo, non tra gli individui all`interno di questo luogo. Naturalmente poi ogni non luogo può diventare un luogo per qualcuno: si tratta quindi, di una distinzione di atteggiamento e non di sostanza.

Il non – luogo: è uno spazio privo delle espressioni simboliche di identità, relazioni e storia: esempi tali di ‘non luoghi‘ sono gli aeroporti, le autostrade, le anonime stanze d`albergo, i mezzi pubblici di trasporto […]. Mai prima d`oggi nella storia del mondo i non luoghi hanno occupato tanto spazio.

http://sociologia.tesionline.it/sociologia/articolo.jsp?id=2597

1 Augé citato in M. Magatti, La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell‘età contemporanea, p. 44 | Articolo tratto dalla tesi di Laura Lucchese, L‘arte del viaggiare: l‘etnografia del pendolare, studio sociologico sulle moderne forme del viaggiare e della loro relazione con le concezioni di tempo e spazio modificatesi con le più recenti trasformazioni sociali.

bottom of page